Parlare di Bambino Interiore non vuol dire annegare dentro le proprie ferite, significa invece, fare pace con “traumi” percepiti dalla “visuale” del bambino che un tempo ha vissuto una certa esperienza al meglio delle sue risorse. Significa disinnescare quei modelli che ancora oggi vengono utilizzati come filtro comportamentale.
Occorre quindi dare la possibilità al Bambino Interiore di emergere dalle sue profondità, di essere ascoltato, protetto, accudito e onorato.
E’ molto probabile che i nostri genitori non si siano fatti certe domande, non gli era stato insegnato come amare se stessi, o semplicemente che ai loro tempi ci fossero altre “priorità”.
Basti pensare alla generazione dei nostri nonni, che hanno vissuto la guerra, la loro priorità era
soddisfare i bisogni primari, di cibo, di sopravvivenza, di salute e le carezze in molti casi non venivano minimamente contemplate.
Su queste priorità i nostri genitori hanno costruito le fondamenta delle loro relazioni.
Ecco, che alcuni ritengono che si può parlare di ” trauma” solo se ci sono oggettivamente eventi traumatici (violenze, abusi, o altro che per la “società” vengono classificati come episodi da condannare) e quando ci capita di provare sentimenti legati a un passato non pacificato, può capitare di non poterne parlare con nessuno, nemmeno co sé stessi, per un senso di vergogna, di senso di colpa, come a giustificarsi dicendosi “in fondo di cosa ho da lamentarmi?”
Ecco che allora, ciò che si prova viene represso e relegato nei meandri del cuore.
Per trauma intendiamo il “significato” che diamo all’esperienza, ed è una “memoria irrisolta bloccata nel corpo“.
Anche un percepito apparente insignificante per un adulto, come ad esempio delle sgridate per un bambino, dei rimproveri, si tramutano in blocchi non solo a livello fisico, andando a coinvolgere ad esempio il diaframma, la gola, il bacino ecc.
Consideriamo che il dott. Hamer ha definito la malattia come uno “shock, un evento inaspettato drammatico, vissuto in stato di isolamento”.
In pratica “non scaricato” attraverso ad esempio la condivisione, l’opportunità di rilasciare quel “carico” emozionale, che quindi rimane “impresso” da qualche parte e apparentemente dimenticato.
L’abbraccio della mamma per un bimbo è contemporaneamente “scarico fisico e carico emozionale”
Luis Diaz definisce il corpo di dolore come “l’accumulo di ogni esperienza sensoriale spiacevole o di un’emozione sgradevole che non abbiamo riconosciuto o che non ci ha permessi di provare mentre accadeva, il risultato della combinazione a resistere e negare quell’esperienza”.
In pratica il corpo di dolore non è solo la sofferenza ma il rifiuto, la negazione nell’affrontarla.
E’ facile azzittire un bambino che tenta di esternare un disagio, con affermazioni del tipo:
” non piangere per queste sciocchezze”, ” i bambini bravi non si comportano così”,” cosa vuoi che sia”, ecc. e così quell’emozione viene soffocata con il classico groppo alla gola, con la sensazione di essere sbagliati, inadeguati e “non meritevoli” dell’amore dei nostri genitori.
Alcuni bambini per non sentire quel dolore, lo barattano con una sofferenza sorda, invisibile ma costantemente presente, altri con il senso di colpa pur di salvare l’archetipo della madre e del padre e altri sfogando quell’energia nei modi che conoscono.
Come dice Robert Dilts si crea l’auto programmazione profonda delle convinzioni limitanti:
Impotenza: “non sono in grado di farcela da sola”
Disperazione: “nessuno può aiutarmi” e ” nessuno mi ama”
Indegnità: ” Non mi merito di essere felice”.
Non è mai tardi per parlare con il tuo bambino interiore, liberalo dalla programmazione di doversi meritare l’amore.
Non siamo nati per meritarci l’ amore, siamo nati per riconoscere di Essere Amore.